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06 Ago 2018

Osteopatia e disabilità mentale, uno studio CSOT. Intervista a Antonio Pellegrino D.O.

Portare l’Osteopatia un passo oltre. Esiste un complesso di saperi consolidati, legati alla nostra disciplina, e poi, tutt’intorno, piste e frontiere meno battute o del tutto inesplorate. Sono gli orizzonti che danno corpo alla ricerca.

Il CSOT ha avuto il piacere di presentare una di queste incursioni in territorio inesplorato lo scorso maggio, in occasione del 5° Congresso Internazionale di Osteopatia, a Pescara. Il titolo dello studio – “La disfunzione somatica nell’ambito dei disturbi mentali e comportamentali” – circoscrive il terreno sperimentale dell’indagine e lascia intravedere anche la ricchezza dell’esperienza vissuta. E’ questo l’aspetto su cui Antonio Pellegrino, D.O., uno dei sei osteopati coinvolti, si entusiasma di più nel raccontare il progetto.

Il lato umano è forse la cosa più grande che caratterizza questo studio. Io lavoro con persone di diversa abilità – il termine “disabilità” viene usato giustamente sempre di meno – mentale dal 1990, dunque per me non è stato un episodio inedito, ma ho potuto vedere i colleghi di fronte a un’esperienza di questo tipo per la prima volta; misurarsi con la necessità di instaurare un rapporto di fiducia ancora più forte che nel caso dei soggetti con cui lavorano di solito: queste persone si devono sentire davvero sicure“.

La sicurezza come punto di partenza, la conoscenza come punto arrivo. “In letteratura c’è pochissimo in questo campo, – sottolinea infatti Pellegrino – si tratta di una frontiera veramente nuova. Ma il nostro è uno studio pilota appena iniziato, che va approfondito, va ulteriormente ampliato, perché il caso considerato è estremamente specifico. Queste persone andrebbero innanzitutto trattate osteopaticamente per vedere se si riscontrano dei cambiamenti“.

Le condizioni peculiari di partenza sono appunto un elemento da non perdere di vista, se non si vuole smarrire, insieme ai limiti della ricerca, anche il suo valore. “Il lavoro è stato “osservazionale”. Abbiamo selezionato 15 persone, e con un gruppo di altri osteopati abbiamo svolto dei test. Da ciò è stato ricavato quello che è descritto nello studio, e cioè la presenza di disfunzioni a carico dell’apparato craniosacrale e del fegato, in soggetti affetti da ritardo mentale, soprattutto, ma anche da altre problematiche comportamentali». Risultati che Antonio Pellegrino non manca di qualificare nel linguaggio dell’Osteopatia come “un rallentamento del R.A.F., quindi al livello del ritmo ampiezza e forza, e una disfunzione al livello dell’osso temporale“.

La struttura visitata dal gruppo del CSOT per la raccolta dei dati è l’E.C.A.S.S. di Roma, un centro di reinserimento e riabilitazione per persone con disabilità mentale, convenzionato con la regione Lazio; mentre i pazienti che l’hanno resa possibile sono quelli del “servizio semi-residenziale”, che non trascorrono cioè l’intera giornata all’interno della struttura ma solo il tempo necessario alle terapie.

Pellegrino e il resto del team di osteopati – Vito Adragna, Manlio Cicoira, Cristina Feliziani, Maria Paola Gennamari, Alessia Beltramme e Giacomo Lo Voi – hanno preso le mosse da un’esperienza finora limitata all’ambito infantile, secondo cui “sappiamo come, in caso di disturbi comportamentali, possano esserci disfunzioni craniosacrali“, per formulare l’ipotesi che fosse possibile “vedere anche nell’adulto con disabilità mentale quanto e se determinate disfunzioni si presentino“.

Il valore dell’intero lavoro sta, per dirla ancora con le parole di Antonio Pellegrino, “nell’aprire un nuovo terreno e magari inserire la pratica osteopatica nel ciclo di terapia di queste persone. Un’applicazione a cui, attualmente, a nostra conoscenza, nessuno fa ricorso“. Tanto più che gli effetti del trattamento osteopatico su persone solitamente “meno abituate alla fisicità dei cosiddetti “normodotati”” sarebbero veramente benefici.

L’Osteopatia può restituire almeno un barlume della fiducia e bellezza del contatto umano a “persone che hanno subito un doppio danno, per via delle loro patologie spesso pre, peri e post natali o genetiche, da una parte, e della mancanza di stimoli e di esperienze, dall’altra, dovute al loro minor grado di integrazione, sia con i coetanei che nelle dimostrazioni di affetto che ricevono dagli adulti. Per loro, abituarsi al contatto fisico, accettarlo, è una cosa importante. Perché la salute non è solo del corpo ma, come dice l’OMS, psicosociale.

La ricerca del CSOT, presentata anche al congresso del ROI di Milano, rischiara una zona d’ombra, e la luce forse aumenterà.

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